Non conoscevo nulla di
Iqbal Masih prima di leggere questo libro, non so se altri ignorano chi sia stato ed è proprio per farlo conoscere che ho deciso di scrivere questa recensione.
Il titolo del libro è “
Il fabbricante di sogni” e l’autore è
Andrew Crofts, giornalista free lance che molto spesso presta la sua abilità di scrittore a persone che hanno una storia da raccontare ma non hanno la capacità per farlo da sole ed è per questo motivo che a volte il suo nome non appare neppure in copertina.
Nella pagina che precede l’inizio del libro sono scritte due frasi che voglio riportare perché le ritengo importanti per iniziare la lettura con lo spirito giusto
Gandhi 1949
“Nel momento in cui uno schiavo decide di non esserlo più, i ceppi si sciolgono. Egli libera se stesso e mostra agli altri il cammino. Libertà e schiavitù sono stati mentali”
Abramo Lincoln 1862
“Nel concedere la libertà allo schiavo garantiamo la libertà al libero”
La storia inizia poche ore prima della fine della vita di Iqbal, nel primo capitolo è infatti ospite nella casa natale, in visita alla mamma in occasione delle festività pasquali.
Accolto da una folla di conoscenti arrivati appositamente per vederlo perché è ormai diventato famoso, Iqbal vorrebbe tornare in città, a Lehore, per lui ogni posto è diventato insicuro da quando ha iniziato la sua lotta contro la schiavitù e contro i proprietari delle fabbriche di tappeti.
Si lascia però convincere da due amici d’infanzia ad andare a trovare il padre di uno di loro che desidera vederlo ma è impegnato con il lavoro nei campi.
E’ lungo quella strada che la scena di allegria dei tre ragazzi felici che ridono, in equilibrio su una sola bicicletta, viene interrotta da uno sparo.
Dal secondo capitolo si ritorna all’inizio della storia di Iqbal, prima che qual colpo di fucile cambiasse ogni cosa era uno schiavo, lo era diventato all’età di quattro anni, quando il padre lo aveva venduto, insieme al fratellino Patras di soli due anni più grande, ad un fabbricante di tappeti in cambio di pochi dollari che avrebbero permesso al fratello maggiore di comprare i regali necessari per sposarsi.
Il lavoro nella fabbrica consisteva nell’accucciarsi davanti ad un telaio e farvi passare i fili nel modo più veloce ed accurato consentito dalle sue piccole dita.
Veniva prelevato al mattino e rincasava la sera tardi, le prime volte con le mani coperte di tagli e vesciche che con il tempo sarebbero stati sostituiti dai calli e almeno non avrebbero più sanguinato.
Il suo primo padrone non è cattivo ma presto lo vende ad un altro fabbricante di tappeti. Iqbal non è che uno schiavo e per il suo padrone è normale venderlo.
L’ambiente della nuova fabbrica ed il nuovo padrone sono ben diversi da ciò a cui è abituato. Vige il divieto assoluto di alzare gli occhi dal lavoro ed ogni piccola distrazione viene punita a bastonate.
Timorosi delle conseguenze i bambini di rado si permettono di sbagliare. Se qualcuno si tagliava seriamente un dito con gli attrezzi affilati e doveva smettere di lavorare i sorveglianti cominciavano a sbraitargli di stare attento a non far gocciolare il sangue sull’ordito. Il bimbo doveva immergere le ferite nell’olio bollente per farle chiudere e tornare al lavoro non appena avessero finito di sanguinare. Il tempo perso per l’incidente lo avrebbero recuperato la sera stessa.
Spesso il padrone lo accompagnava a casa per informare la madre di quanto fosse stato negligente e di quanto avesse battuto la fiacca. Non era vero però la madre lo sgridava e schiaffeggiava ugualmente.
Al mattino alle quattro venivano ogni giorno a prelevarlo da casa e lui si sentiva fortunato perché altri bambini della fabbrica abitavano lontano e dovevano dormire vicino ai telai.
A volte capitava che qualcuno dei compagni rinunciasse a vivere, il giorno dopo al suo posto c’era un altro bambino.
Quando ha otto anni decide di scappare e ci riesce ma, volendo salvare anche i suoi compagni, si reca a chiedere aiuto ai poliziotti i quali, essendo corrotti, lo riconsegnano al padrone. E’ in quell’occasione che conosce la “stanza delle punizioni”. Viene picchiato selvaggiamente, gli vengono legate le mani e i piedi, viene appeso a testa in giù al ventilatore a soffitto rimanendo un giorno intero a girare insieme alle pale del ventilatore. Dopo avere ripreso il lavoro viene controllato a vista sia in fabbrica che a casa perché anche la madre teme che voglia fuggire durante la notte.
Iqbal sa che bisogna solo avere pazienza e prima o poi si ripresenterà un’occasione propizia ed infatti riesce nuovamente a fuggire. Stavolta rimane ben lontano dalla polizia e diventa un bambino di strada. E’ durante il periodo nel quale vive in strada che incontra la persona che cambierà la sua vita.
Ehsan Khan, fondatore del Bonded Labour Liberation Front un’organizzazione che ha lo scopo di liberare i bambini schiavi. Iqbal è colpito dai suoi discorsi e vuole partecipare attivamente a questa battaglia. Esistono anche in Pakistan le leggi che vietano la schiavitù ma non vengono applicate per non danneggiare il commercio dei tappeti. Gli occidentali amano i tappeti annodati a mano ma non vogliono pagarli al prezzo che dovrebbero avere se fossero tessuti da operaie anziché da bambini.
La lotta è difficile, i nemici sono tanti ma sono tante anche le persone che capiscono che è orribile la vita che stanno conducendo i bambini nelle fabbriche. Iniziano ad organizzare incursioni per liberare gli schiavi-bambini e la prima incursione la fanno nella fabbrica nella quale lavorava Iqbal.
Salvare i bambini diventa l’obiettivo primario di Iqbal al quale si aggiunge l’obiettivo di studiare. “Se sai leggere e scrivere e fare almeno i conti più semplici nessuno ti potrà imbrogliare e far firmare un contratto che ti rende di nuovo schiavo”, questo gli aveva detto Ehsan e Iqbal sapeva che così sarebbe stato.
A volte capitava che i bambini liberati venissero nuovamente presi dai padrini, che li facevano rapire.
“Perché il governo non manda la polizia e l’esercito a liberare i bambini-schiavi?” è la domanda che un giorno Iqbal pone a Ehsan e lui risponde che succede perché credono che così deve andare. Dicono che in Pakistan il lavoro minorile è una tradizione e l’economia non è strutturata per un cambiamento.
Iqbal continua a lottare perché sa che se una cosa è sbagliata bisogna cambiarla a tutti i costi, non riuscirebbe a vivere diversamente, facendo finta di non vedere come spesso succede a noi, con le nostre coscienze che si adeguano a situazioni intollerabili.
Il desiderio di Iqbal era quello di informare i consumatori europei e americani del fatto che comprando merce a poco prezzo prodotta nel Terzo Mondo gli schiavi dovevano produrla gratis ed in questo modo lo schiavismo non sarebbe mai finito.
A Iqbal viene assegnato il premio per i Diritti Umani, istituito da una grande azienda americana ( la Reebok) e va negli USA a ritirare il premio.
Diventa sempre più famoso e sempre più scomodo per i fabbricanti di tappeti ed è per questo motivo che viene ucciso.
Gli assassini non si accontentano di essersi liberati di Iqbal, vorrebbero usare la sua morte per screditare Ehsan e la sua organizzazione mettendo in circolazione la voce che è stato lui ad ucciderlo per impressionare l’opinione pubblica e fare propaganda all’organizzazione.
Fino a quando penseremo che certe situazioni non sono modificabili, che certe crudeltà dobbiamo accettarle perché fanno parte della tradizione di un popolo non potremo considerarci un popolo CIVILE.
E’ un libro da inserire nelle biblioteche scolastiche, da regalare ai ragazzi perché solo se i giovani conosceranno questa realtà potremo sperare in un cambiamento.
Navigando in internet ho trovato il sito di un’organizzazione per la liberazione degli schiavi costituita da un giovane che da ragazzo aveva ascoltato un discorso di Iqbal. Il sogno di giustizia del piccolo eroe pakistano è contagioso, Iqbal è morto ma continua a vivere in chi ha il coraggio di impegnarsi per realizzare le sue idee di giustizia e di libertà.
un saluto da Marta
Le ceramiche ed il collezionismo di Marta puoi trovarli QUI